Depressione Post Partum

La psicologa sorride a Giovanna, una neo-mamma di 36 anni. “Per favore intrattenga il bimbo per un paio di minuti”, la terapista quindi lascia la stanza. Due videocamere filmano Giovanna e la sua figlia di 3 mesi. Nella stanza adiacente un monitor mostra la madre di fronte alla figlia, seduta in un seggiolone. Inizialmente Giovanna appare persa e non sa cosa fare. Dopodiché il suo viso si irrigidisce vistosamente, inizia quindi a sussurrare alla bimba. La piccola instaura un veloce contatto visivo con la madre, diventa irrequieta dopodiché distoglie lo sguardo da lei. Giovanna quindi smette di parlarle e si sente nuovamente insicura su come agire. In maniera assente tocca il piede della figlia con una mano. Passati i 2 minuti la psicologa bussa alla porta, trovando Giovanna sull’orlo di una crisi di pianto.

Risulta chiaro come Giovanna soffra di depressione post-partum, un disturbo che ha danneggiato il suo rapporto con la figlia. Benché la maggior parte delle donne sia soggetta a periodi di pianti, irritabilità, difficoltà di concentrazione e spossatezza, queste crisi passano nell’arco di poche ore o giorni. Ma per una percentuale tra il 10 e il 20 percento delle neo-mamme, nel primo anno di maternità, compaiono problematiche come quelle di Giovanna che, se non trattate adeguatamente, possono perdurare mesi o anni.

Giovanna si sente spesso esausta e svuotata emozionalmente. Quando la figlia piange, a volte vorrebbe sparire o addirittura fuggire. Si sente pervasa dai sensi di colpa per il fatto di non riuscire a mostrare amore alla figlia. Le madri con i sintomi della depressione post-partum sono spesso travolte dalla sensazione che potrebbero perfino fare male alle proprie creature. Nonostante ciò avvenga raramente, le madri depresse possono comunque trovare particolarmente difficile e gravoso occuparsi dei propri figli.

Questa problematica affligge donne di tutto il mondo. Una ricerca su 143 studi effettuati in 40 Paesi mette in evidenza come la depressione post parto è particolarmente comune in Brasile, Guyana, Costa Rica, Italia, Cile, Sud Africa, Taiwan e Corea, con picchi di diffusione del 60% tra le neo mamme.

IL CAOS ORMONALE E LA PREDISPOSIZIONE

Le cause di questo disturbo non sono completamente note, ma l’intensa tempesta ormonale che avviene dopo il parto può, nei soggetti predisposti, contribuire in particolar modo.Le donne sono particolarmente vulnerabili alla depressione durante gli anni fertili: percentuali di diffusione del disturbo sono più alte in donne tra i 25 e 45 anni. Nel numero di ottobre di “American Journal of Psychiatry” uno studio riporta che il 10,4% di circa 4.400 madri è stata depressa nei 9 mesi successivi al parto, la percentuale di donne depresse alle prime settimane della gravidanza è stata del 8,7% e del 6,9% durante la gestazione. Più della metà delle donne con depressione post-partum risulta inoltre essere stata depressa prima della gravidanza, questo fà pensare che possa essere uno dei fattori di rischio maggiori.
Il fattore scatenante nei soggetti predisposti è tuttavia il caos ormonale che avviene durante la gravidanza. Basti pensare che nelle 48 ore successive al parto il livello di estrogeni e di progesterone hanno una brusca diminuzione ad 1/50esimo della quantità presente nel sangue durante la gravidanza. Questa forte oscillazione può contribuire all’avvio dello stato di depressione, così come il più modesto sbalzo ormonale che precede il periodo mestruale basta a causare un cambiamento d’umore nella donna.

Ovviamente il flusso di ormoni non basta a spiegare il fenomeno. Dopotutto queste oscillazioni nella chimica corporea avvengono in tutte le madri, e solo una piccola percentuale di queste accusa questo grave disturbo; con ogni probabilità sono quelle già predisposte al disturbo.
Nel 2000 l’endocrinologo David Rubinow, allora in servizio presso un istituto di salute mentale, presentò una ricerca che mostrava come la simulazione delle variazioni ormonali che avviene durante la gravidanza e dopo il parto in 16 donne fece calare drasticamente i sintomi depressivi in 5 delle 8 donne che avevano avuto in passato esperienze di depressione, mentre questo risultato non si è ottenuto nei soggetti che non avevano mai avuto periodi di depressione.

Anche le energie che una maternità richiede giocano un ruolo importante. Molte donne si sentono esauste a causa dell’interruzione del sonno causata dal pianto del neonato e sentono come particolarmente gravoso il compito di accudirlo. Altre rimpiangono spesso il cambiamento dello stile di vita o la forma fisica che avevano prima del parto. Le donne che devono sopportare questi stress in aggiunta a problemi di coppia, parti difficili, perdita del lavoro o scarso supporto da parte dei familiari sono i primi soggetti a soccombere alla depressione post-partum.

LEGAMI INDEBOLITI

Le conseguenze della depressione si abbattono non soltanto sulla madre. Avvolta da una cortina di tristezza la madre spesso manca di energia emotiva per relazionarsi correttamente col proprio bambino. Un dolore a volte insopportabile le impedisce di percepire un sorriso, un pianto ed altri gesti che il neonato esegue per tentare di comunicare con la madre. Senza una sua risposta da parte sua il bambino cessa di relazionarsi con lei. Per questo i neonati di 3 mesi con madri depresse cercano meno spesso un contatto visivo con la madre e mostrano meno segni di emozioni positive di quanto facciano i figli di mamme senza questo problema.
Infatti i neonati di madri depresse hanno un comportamento analogo alla “impotenza appresa” , un fenomeno che il psicologo Seligman e i suoi colleghi presso l’università della Pennsylvania hanno trattato negli anni 1960. Nell’esperimento di Seligman un animale arriva alla conclusione che una situazione definita come disperata in seguito a svariati falliti tentativi resta tale anche quando la situazione cambia favorevolmente ed un ulteriore tentativo (che però non viene effettuato) sarebbe quindi positivo. Una simile passività caratterizza la depressione in quanto i neonati tendono a imitare il comportamento depressivo della madre. Tale reciproca rinuncia può avviare un processo che porta all’erosione dei legami affettivi tra madre e figlio, specialmente se la depressione compare nei primissimi mesi di vita del bambino. Altri studi hanno mostrato che i neonati sviluppano le capacità sociali di base tra il secondo ed il sesto mese di vita, instaurando relazioni con la madre e spesso anche con altre persone. In una ricerca del 2006 su 101 neomamme, la psichiatra Eva Moehler e i suoi colleghi scoprono che la depressione materna diminuisce fortemente i legami tra madre e figlio se questa compare tra le 2 settimane e i 4 mesi di vita del neonato, mentre non sortisce alcun effetto se il bambino ha superato i 14 mesi di età. Perciò la depressione occorsa durante i primi mesi di vita del bimbo possono essere particolarmente pericolosi per il suo lo sviluppo sociale: il figlio di una madre depressa può diventare molto introverso o essere soggetto a sociofobia, una paura estrema di affrontare determinate situazioni sociali o prestazionali, di interagire con gli altri o anche semplicemente di essere osservati.

La depressione post-partum di solito non ha effetti a lungo termine sullo sviluppo cognitivo del bambino. In uno studio del 2001 gli psicologi Sophie Kurstjens e Dieter Wolke dell’Università di Monaco di Baviera hanno verificato le capacità intellettuali di 1.329 bambini (92 dei quali nati da madri depresse) di varie età tra i 20 mesi e gli 8 anni senza riscontrare particolari deficit tra i figli di madri soggette a depressione post parto.

Nonostante la preoccupante situazione, molte madri non chiedono alcun tipo di aiuto perché bloccate dalla vergogna per uno stato mentale che difficilmente sono in grado di accettare. In questi casi la psicoterapia può essere di grande aiuto.  Terapia con comprovata efficacia sono per esempio quelle d’impronta cognitivo-comportamentale, nella quale lo psicoterapista prova a correggere modi di pensare distorti e negativi nella madre sia discutendo con lei apertamente o chiedendole di esercitarsi al fine di mettere in atto un comportamento via via più flessibile.

Altre tecniche di cura prevedono che venga coinvolto anche il neonato nella terapia. Per esempio con la videoregistrazione e l’analisi dell’interazione tra madre e figlio. La tecnica aiuterebbe le madri a percepire correttamente i segnali inviati dai neonati sentendosi quindi più coinvolte. Questo tipo di terapia dovrebbe quindi riattivare il repertorio di comportamenti istintivi che era stato ottenebrato dalla depressione.
Capita infatti che una madre non riesca ad interpretare il comportamento del figlio innescando così un circolo vizioso nel quale l’apparente rifiuto da parte del neonato la rende insicura e triste. In realtà è normale che un neonato si giri per guardare altrove dopo un’interazione sociale in quanto questo è uno dei primi metodi che utilizza per governare gli stimoli esterni.

Il padre può essere di grande supporto nei casi di depressione post parto. Presumendo che non sia depresso, un padre può contrastare in maniera positiva gli effetti della depressione della madre, costruendo un forte legame con il proprio figlio / figlia. Nel frattempo la madre può procedere nel percorso utile ad alleggerire le difficoltà emozionali chiedendo supporto da familiari ed amici, dormendo di più, passando più tempo col compagno o uscendo di casa più spesso al fine di sentire meno la pressione di madre su di se.

La maggior parte delle madri che ricevono un adeguato trattamento, di solito una combinazione di psicoterapia, cure farmacologiche ed auto aiuto, recuperano completamente nel giro di due / tre mesi. Spesso le madri che escono da questo periodo di depressione hanno una particolare vitalità ed un profondo istinto materno.

CONSULENZA

L’articolo e’ stato redatto avvalendosi della consulenza della Psicologa Dott.ssa Ernesta Zanotti

APPROFONDIMENTI e RISORSE ESTERNE

  • http://www.emedicinehealth.com/postpartum_depression/article_em.htm
  • http://www.4women.gov/FAQ/postpartum.htm
  • Effects of Gonadal Steroids in Women with a History of Postpartum Depression. M. Block, P.J. Schmidt. M. Danaceau, J. Murphy. L. Nieman and D. R. Rubinow in American Journal of Psychiatry. Vol. 157, N. 6 pagine 924-930; Giugno 2000.
  • Effects of Maternal Depression on Cognitive Development of Children over the First 7 Years of Life. S. Kurstjens and D. Wolke in Journal of Child Psychology and Psychiatry. Vol. 42, N. 5 pagine 623-636; Luglio 2001.
  • Interactive Regulation of Affect in Postpartum Depressed Mothers and Their Infants: An Overview. Corinna Reck et al. in Psychopatho/ogy. Vol. 37, N. 6 pagine 272-280; Novembre-Dicembre 2004.
  • Clinically Identified Maternal Depression before, during, and after Pregnancies Ending in Live Births. P. M. Dietz. S. B. Williams, W. M. Callaghan, D.J. Bachman, E. P. Whitlock and M. C. Hornbrook in American Journal of Psychiatry. Vol. 164. N. 10 pagine 1515-1520; Ottobre 2007.

Il Settimo Senso

Fin dall’infanzia ci è stato insegnato che il corpo umano possiede 5 sensi che sicuramente tutti conoscete (vista, udito, tatto, gusto, odorato). Questo elenco è rimasto immutato dal tempo di Aristotele. esiste poi il cosi definito “sesto senso” che per molte persone  può riferirsi  ad una percezione fuori dalla sfera scientifica o semplicemente ad un senso di cui gli essere umani non dispongono (al di la del detto culturale o di particolari credenze).

Tuttavia, se provate a chiedere ad un neurologo di quanti sensi dispone il corpo umano, potreste rimanere sorpresi dalla risposta. Molti specialisti identificano 9 o più sensi, altri ne classificano addirittura 21. La prima categoria di sensi è quella dei sensi speciali che includono i già noti vista, udito, gusto e odorato. La seconda categoria è composta dai sensi somatici, che di solito vengono raggruppati in massa con il senso del “tatto”, inclusi il nostro senso della pressione, calore e dolore. La terza categoria invece non è ancora ben conosciuta e comprende i sensi introspettivi, ovvero quelli che hanno a che fare con informazioni che si provengono dall’interno stesso del corpo.

E’ abbastanza ovvio cosa possa succedere ad una persona quando un senso viene a mancare; possiamo immaginare cosa può voler dire perdere la vista o l’udito, la sensibilità (il tatto) o l’olfatto (perdita che accompagna di solito un forte raffreddore).

Ma cosa succede quando il corpo perde la consapevolezza di se stesso ?

I sensi definiti “introspettivi” sono raggruppati in varie configurazioni, ma di base sono 3.

L’equilibrio è il senso dell’allineamento del corpo. Questo senso aiuta per esempio i vegetali a crescere in verticale indipendentemente dalla pendenza del terreno e consente agli animali di collocarsi nelle tre dimensioni (pensate per esempio come un gatto riesca a cadere sempre sulle zampe)

Il senso organico è quello che allerta il corpo riguardo alle sue condizioni interne, e vi permette per esempio di capire che siete affamati o assetati.

Il terzo senso introspettivo è definito come Propriocezione. Semplificando si può definirla come la capacità del cervello di conoscere la posizione delle parti del corpo. Per capire questo senso, chiudete gli occhi ed estendete la vostra mano in una direzione casuale. Ora identificatene mentalmente l’esatta posizione dopodiché aprite gli occhi. Sappiate che il cervello potrà identificare la posizione della vostra mano, anche se nessuno dei 5 sensi “classici” potesse rilevarla.

La perdita del senso della Propriocezione è conosciuta con diversi nomi: Sindrome di Sack e Deficit della Propriocezione sono titoli differenti per la stessa malattia, ovvero l’incapacità del corpo di essere consapevole di se stesso. Essendo un disturbo raro non è facile stabilire quali siano i primi sintomi anche se pare chiaro che siano legati alla perdita di coordinazione fino ad arrivare alla totale mancanza di propriocezione. A questo punto la persona prova una sensazione di totale dissociazione tra mente e corpo proprio come se questi fossero separati ed indipendenti.

Il neurologo e scrittore Oliver Sack (omonimo della Sindrome, già autore di “Risvegli”), ha descritto nel libro “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” la storia di una paziente definita “La Disincarnata“. Questa donna, nell’arco di pochi giorni, passò da uno stato di piena salute ad uno nel quale era totalmente priva della consapevolezza del proprio corpo.

Le conseguenze di questo disturbo sono gravi, basti pensare alle varie semplici attività che richiedono l’utilizzo di questo senso durante il giorno. Se per esempio mentre portate la borsa della spesa verso l’automobile e vi cadono le chiavi, le vostre gambe non si piegheranno facilmente perché non avete pieno controllo su di loro, ciò che tenete nell’altra mano cadrà improvvisamente nel momento in cui smettete di concentrarvi su tale attività, la vostra mascella si aprirà nel momento in cui non starete più pensando a tenere la bocca serrata.

Al momento non esiste una cura per questa Sindrome. Come in ogni altra persona sottoposte a deprivazione sensoriale, le persone affette da deficit della propriocezione tendono a sostituire questa percezione con un altro senso.  La paziente di Oliver Sack sostituì la propriocezione con la vista. Poiché non era più in grado di stabilire dove si trovassero le proprie parti del corpo, creò tale consapevolezza guardandosi. Se voleva afferrare una tazza di caffè doveva osservare attentamente la propria mano finché non aveva sorseggiato e posato di nuovo la tazza al sicuro. Se voleva camminare nella stanza, era necessario che guardasse attentamente i propri arti inferiori.

Ogni movimento va quindi attentamente analizzato e messo in atto, non è più possibile affidare al corpo semplici attività come il camminare o il sedersi. Inoltre i movimenti non appaiono per nulla naturali, è come se la mente comandasse una marionetta. Aprire una porta diventa un complicato processo di allungamento del braccio, contrazione delle dita, rotazione del polso, contrazione del braccio, e così via.
Inoltre le parti del corpo non direttamente oggetto di attenzione divengono totalmente prive di controllo.

Fortunatamente la Sindrome di Sack è molto rara, non contagiosa e non trasmissibile geneticamente. A differenza di molti altri disturbi, le statistiche suggeriscono che siano più colpite le persone con maggior grado di istruzione. E’ per questo che si ipotizza che tra le cause ci possano essere motivi psicologici. Ciò che è certo è che questo disturbo mette in evidenza funzioni della mente umana che sono ad oggi ancora poco conosciute.

APPROFONDIMENTI e RISORSE ESTERNE

http://www.anobii.com/books/010fc4e053b492ff52/

Le Allucinazioni di Charles Bonnet

La vita tranquilla di uno studioso di animali e piante di nome Charles Bonnet, fu turbata nell’anno 1760 quando suo padre iniziò a provare una serie di stravaganti allucinazioni. L’ottantanovenne Charles Lullin sperimentò infatti visioni di persone, animali, edifici, carrozze ed altri oggetti che si gli presentarono davanti in maniera vivida, molto più vivida di quel piccolo angolo di realtà distorta che riusciva ancora a vedere attraverso le sue forti cataratte.

Il padre di Bonnet non presentava alcun sintomo di demenza ed il suo stato di salute, tranne per queste intense allucinazioni, appariva piuttosto buono. Oltretutto era ben consapevole che ciò che vedeva non era reale. Charles Bonnet catalogò queste stravaganti visioni e col passare del tempo questi sintomi furono successivamente classificati come la “Sindrome di Charles Bonnet”. Molti casi simili furono registrati nei decenni successivi, e benché si pensasse fosse una malattia rara, recentemente è risultata essere piuttosto diffusa.

Per le persone colpite da questa sindrome, il mondo è occasionalmente adornato in maniera irreale. A seconda dei casi, qualcuno potrebbe vedere le superfici coperte da motivi inesistenti (immaginate per esempio che la parete di fronte a voi sia improvvisamente coperta da una stravagante carta da parati) mentre altre persone vedono inafferrabili oggetti dettagliati in maniera sorprendentemente minuziosa. A volte una porzione significante della realtà viene alterata (per esempio una semplice scala che diventa uno scosceso dirupo). Queste visioni possono durare secondi, minuti o addirittura ore.

La maggior parte delle persone affette dalla Sindrome di Charles Bonnet si trovano nei primi stadi del processo che porta alla perdita della vista e queste allucinazioni di solito iniziano quando ancora vedono ma la loro capacità di vedere sta leggermente e lentamente diminuendo. La causa più comune di questa grave perdita è la degenerazione della macula o degenerazione maculare, una malattia dove certe cellule fotosensibili della retina funzionano male causando un lento ingrandimento del “punto cieco” al centro della visione.

Altri problemi oculari quali il glaucoma e la cataratta possono causare i sintomi di questa sindrome ed in alcuni casi è stata diagnosticata anche a persone senza problemi alla vista. La probabilità di riscontrare queste allucinazioni sembra aumentare nelle persone con scarsa vita sociale. Persino le persone ipovedenti fin dalla nascita possono essere interessati da queste visioni, restando ovviamente sbigottite dalla loro chiarezza e complessità.

Una percentuale significativa di pazienti descrive inoltre la visione di teste fluttuanti in continuo movimento che periodicamente entrano nel loro campo visivo. Queste hanno solitamente occhi sbarrati, denti pronunciati e caratteristiche che potrebbero ricordare un gargoyle. Raramente si tratta di volti noti, e, pur presentando espressioni piacevoli, hanno l’inquietante caratteristica di cercare frequentemente un contatto visivo. Pur non essendo minacciose quindi, queste visioni non sono facili da scacciare. Inoltre, data la basilare tendenza dell’essere umano a credere ai propri sensi, queste allucinazioni possono accendere un forte conflitto tra le emozioni e la ragione.

In un’ironica dimostrazione della loro intatta razionalità, molte delle persone afflitte dalla sindrome di  Charles Bonnet scelgono di non parlare di queste loro visioni per paura che la loro sanità mentale possa essere opinata. Per contro, persone con psicosi tendono a immergersi in elaborate finzioni per spiegare le loro allucinazioni e raramente si interrogano sulla propria sanità mentale.

Una precisa causa che origina la Sindrome di Charles Bonnet non è ad oggi conosciuta, ma una teoria diffusa sostiene che il cervello stia semplicemente tentando di compensare un ridotto stimolo visivo. Si consideri che un essere umano sano riceve ogni secondo dal senso della vista qualcosa come 8 Megabit di dati, una banda di informazioni ben più larga delle normali connessioni ADSL. La corteccia visiva è il sistema più massiccio nel cervello umano, ed è stipata di connessioni in grado di manipolare il flusso di informazioni proveniente dagli occhi prima di consegnare questo al resto del cervello. Quando una malattia riduce questo flusso di informazioni un numero straordinario di neuroni restano inutilizzati.

E’ cosa nota che il cervello umano sia in grado di gestire una situazione di cecità parziale. Ogni occhio umano ha un punto cieco dove il nervo ottico si collega alla retina e si dirama attraverso questa. La corteccia visiva riempie automaticamente questi punti ciechi estrapolando ciò che dovrebbe vedere dai dettagli prossimi a questi punti. Poiché i punti ciechi di una persona non si sovrappongono, il cervello  effettua una sovrapposizione delle informazioni provenienti dai due occhi (se questi sono entrambi attivi).

Potete percepire il vostro “blind-spot” (punto cieco) utilizzando l’immagine seguente. E’ necessario sedersi di fronte al monitor e coprire un occhio. Fissate una di queste lettere e trovate, spostandovi avanti o indietro la giusta distanza alla quale il punto nero a destra scomparirà.

Punto Cieco

E’ interessante notare come il cervello abbia la capacità di dare all’area interessata dal punto cieco lo stesso colore dello sfondo e come sia inoltre in grado di completare la linea che passa attraverso di esso.

In una situazione di cecità via via crescente, è possibile quindi che il cervello tenti di riempire la progressiva mancanza di informazioni causata dalle nuove aree buie che si sono venute a creare. Poichè gli occhi stanno inviando una quantità di dati sempre più ridotta  e con una percentuale di errore empre maggiore, la corteccia visiva può generare un numero crescente di supposizioni grossolane.
Questa ipotesi è supportata anche dai risultati degli esperimenti di privazione sensoriale; i soggetti provano allucinazioni quando posti in ambienti con assenza totale di luce per lunghi periodi.

La percezione umana è piuttosto imperfetta, al punto che anche un cervello sano deve costruire una consistente porzione di dati per fornirci un senso completo di ciò che ci circonda. Ciò dovrebbe indurre a chiederci quanto della realtà che ci circonda è una percezione comune e quanto è solo una nostra personale visione dell’universo.

APPROFONDIMENTI e RISORSE ESTERNE